mercoledì 7 dicembre 2016

Libertà è Dissoluzione




La morte ci fa paura. Ma di cosa abbiamo paura esattamente? Forse non della morte in sé, piuttosto della sofferenza, o dell’idea della perdita: di perdere noi stessi, i nostri cari, la nostra vita, il nostro corpo, le nostre cose. E abbiamo paura di quel tuffo nel vuoto, nel buio, nel nulla, nonostante le consolazioni delle tante religioni le quali, ognuno a modo suo, ci raccontano di una persistenza, di una vita dopo la vita, di un paradiso, oppure di una reincarnazione e così via.

Nelle mie conferenze mi avrete sentito parlare della nostra “dispersione” dopo la morte nel momento in cui non siamo riusciti, in vita, ad edificare un senso di noi stessi, un’identità trascendente, che sappia proiettarsi oltre la vita fisica: se non costruiamo un’anima integra, dopo la morte veniamo dispersi, proprio come dispersi e sfilacciati siamo, dentro e fuori di noi, durante la vita materiale.

L’obbiettivo della ricerca spirituale, ovvero dell’edificazione di un’ Anima, della nostra anima individuale, è anche quello di costruire un ponte che ci conduca oltre la morte, in una continuità di vita ove la nostra identità permane e prosegue il suo viaggio evolutivo o, ancora meglio, risolutivo nella nostra reintegrazione con l’Assoluto: essere goccia e mare.

Qui però insorge spesso un equivoco che voglio ora definitivamente fugare.

Sì perché sembra quasi che l’obbiettivo sia il permanere, ovvero la continuità della nostra esistenza e coscienza individuale. Sembra che la “conservazione” sia lo scopo. Mentre, invece, è esattamente il contrario! E ora mi spiego.

La nostra anima, o coscienza in divenire, individuale e identificata, non ha la scopo di permanere in quanto tale, anzi: essa deve e vuole definitivamente dissolversi nell’abbraccio con l’Assoluto al quale fare ritorno, ricca dei suoi tesori, ovvero delle esperienze vissute in termini di sentimenti, emozioni, sapori, in definitiva, di Amore.

Deve e vuole dissolversi: non deve permanere. Non può permanere!

Ecco che non dobbiamo confondere il problema della continua, reiterata ed inconcludente dispersione post-mortem – causa dell’eterno ritorno sulla ruota del Samsara – con la dissoluzione cui invece tendiamo in quanto ritorno e unione con l’Assoluto, con l’Essere che è Tutto e Nulla, nel quale fonderci in un’indicibile Totalità, appunto dissolvendoci: non c’è alcuna goccia. Non c’è alcun mare.

Pertanto il concetto di dispersione, senz’altro problematico, non va confuso con quello della dissoluzione che, al contrario, risulta il Fine dei nostri fantastici viaggi nei mondi del possibile. E il Nirvana, I’Illuminazione in quanto affermazione della propria Totalità come Essere, è l’ultimo ostacolo che va tolto di mezzo per perseguire quella fusione che nello Zen, più propriamente, chiamano Satori.

In verità, l’ostacolo al Satori è proprio quella conservazione provocata dalla dispersione continua e inconcludente che di vita in vita lacera la nostra anima inconsapevole, provocando continui e indefiniti ritorni. La conservazione è provocata dalla dispersione ed è l’opposto di quella dissoluzione risolutiva che costituisce, altresì, quella Moksa che è definitiva Liberazione nell’indicibilità.

La dispersione è sinonimo dunque di conservazione inconsapevole. Ne risulta, pertanto, che quella “continuità identitaria” di cui parlo come obbiettivo di continuità esistenziale oltre la morte del corpo, quando indico nell’edificazione della propria Anima immortale il fine del “lavoro” spirituale, è soltanto un espediente che ci permette di acquisire un senso più ampio della vita, di noi stessi, della realtà, ma non deve trasformarsi nell’ennesima trappola dell’attaccamento alla permanenza, sia pure essa nella continuità di una vita superiore, ma pur sempre nel limite dell’individualità che va trascesa in funzione della permanenza, se mai, di un “sapore”: è il distillato del vissuto che se mai si proietta oltre i confini del vivente, annullandosi – e quindi realizzandosi – nell’Essere Assoluto, senza nomi.

La continuità identitaria post-mortem, quel filo (antahkarana) che inanella il divenire delle nostre esperienze (le quali, in virtù dell’anima, si proiettano oltre i veli della materia, dello spazio e del tempo), rimane come necessaria affermazione consapevole della propria Natura trascendente, ma, in virtù proprio di tale consapevolezza, si risolve nel suo opposto, ovvero nella dissoluzione (liberazione, impermanenza) che è libertà nella e della Coscienza. Rimane solo l’Amore: la vita ha senso in quanto opportunità di Amore, di Gioia, di Bellezza nella relazione. In altri termini, ciò che “deve restare” è la gioia della vita, ma non la vita. Capite bene che la “continuità di coscienza” di cui parlavo è sinonimo di dissoluzione, non di conservazione! Mentre la dispersione tipica dei fenomeni della reincarnazione è, quasi paradossalmente, sinonimo di conservazione. Ma di una conservazione inconsapevole, inconcludente, irreale.

Essere attaccati alla vita (e respingere la morte come fine, termine, della vita) è un problema che vale sia per questa vita materiale ma, attenzione, anche nei confronti di qualsiasi altra forma di attaccamento alla vita, sia essa vita superiore: è solo un estendere il campo della propria volontà di permanenza, ma il risultato non cambia: è ancora attaccamento al mezzo che impedisce la consapevolezza e la realizzazione del fine.

Il problema a questo punto è, direi, didattico: perché se vi dicessi di puntare alla dissoluzione, probabilmente vi disperdereste (conservandovi). Nel contempo se vi dicessi di puntare alla conservazione e in voi nascesse l’idea dell’Illuminazione come permanenza della vostra coscienza oltre ogni limite, pur fusa come goccia nel mare, non avreste capito.

Al Nirvana, all’Illuminazione in quanto pienezza del Sé (sia pur esso il Sé Superiore realizzato), alla continuità consapevole della vostra identità cosciente che è goccia e mare, dovete solo far finta di crederci: per ingannare il demone della dispersione. Ma sapete bene che quella consapevolezza di voi stessi, integra, luminosa e permanente oltre ogni velo, non è che meravigliosa dissoluzione: solo un sapore rimane. Senza riferimenti. Senza nomi. Solo l’Amore rimane, fuso nell’Essere che tutto è, che nulla è, la cui Coscienza di sé sta nella fragranza di infiniti vissuti, di per se stessi senza importanza, continuamente rinnovantisi in una danza senza mèta, per il puro piacere di danzare. Ecco ancora una volta l’Assoluto non come fine ma come stato di coscienza, qui e ora, ovunque e sempre. Da nessuna parte e mai.

Va da sé, a questo punto, che la vita ha senso, cioè è vera, autentica, giusta e ben vissuta, solo in quanto (e se) espressione di relazioni attraverso le quali celebrarla creativamente come gioia, bellezza, amore e libertà. Ecco il segreto della vita: un fluire d’amore senza rivendicazioni, senza attaccamento neppure verso la realizzazione più totalizzante e trascendente. Senza appropriazione alcuna.

Permettetemi una chiosa finale: qualunque via autentica vi condurrà all’abbandonare ogni pretesa di vita eterna, in quanto né vita né morte ci appartengono. Vi insegnerà invece al lasciar cadere ogni attaccamento, ogni finalità propria, ogni volontà di affermazione imperitura, svelandovi la bellezza dell’Assoluto impersonale. Vi insegnerà che quello del perdersi, in un certo senso, è un davvero falso problema. Non la stessa cosa vi prometteranno le vie in autentiche e le religioni: alimenteranno la paura della perdita e dello smarrimento, nutriranno in voi la paura della morte e della fine, vi prometteranno una salvezza. Attenzione: non una liberazione, ma una salvezza. Salvezza dalla morte, promessa di vita eterna, raggiungimento di un paradiso assoluto in cui vivere felici, che però non è mai qui: è sempre al di là. Dopo. Se ce lo meriteremo. Se obbediremo. Coloro che promettono l’illuminazione, il paradiso, la vita eterna, ma anche chi promette l’assoluto come fine e termine ultimo al quale giungere per riposarsi finalmente, nella beatitudine della contemplazione di “Dio”, vi stanno indicando una strada illusoria per legarvi stretti al loro guru, alla loro religione e alla loro chiesa nell’al di qua, e ai loro voraci dèi nell’al di là.

Abbandonate dunque l’idea della mèta definitiva: già tutto è (contemporaneamente uno, nessuno e ognuno) eppure non è; per quanto ci riguarda è oppure non è. Abbandonate il timore della morte, della fine e della mancanza, perché il tutto che siete, solo se a nulla vi attaccate, non può temere di avere o di non avere, ma neppure di essere o di non essere.




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